villaggio solidale

Il Villaggio sarà la nostra casa

Pietro aveva la treccia rasta e le All Star alte, rigorosamente nere. Estate e inverno.

Io avevo 19 anni e la voglia tormentata di “far qualcosa per gli altri”, che significava far qualcosa per me, per diradare la nebbia fitta e paralizzante che mi appesantiva la testa.

La prima volta che entrai nello stanzone dell’associazione disabili, dopo una rapida ricognizione delle figure presenti nello spazio, mi avvicinai a lui con passo spedito e occhi bassi, per sfilarmi da un imbarazzo che non avrei saputo affrontare in altro modo. Serve un mano? – mi chiese divertito. In che senso, scusa? – risposi seccato. Hai la faccia di uno appena sceso da un aereo dopo un atterraggio di emergenza, a cui hanno pure fregato le valigie. E sei venuto qui con un piglio così deciso che temevo mi chiedessi dei soldi.

È fatta, voglio stare con lui – pensai, sciogliendomi in un sorriso interiore che assomigliava all’apertura delle cascate del Serio. Diventammo amici.

Lui aveva 20 anni più di me, era l’unico adulto che riuscivo a sentire come un coetaneo. Si andava al cinema, a spasso per la città, al ristorante. Io gli dicevo che le sue perle di saggezza e i suoi racconti mi servivano, lui diceva che trascorreva tempo con me solo per darmi la possibilità di spingere la carrozzella e rafforzare le mie spalle, troppo gracili e magre.

Ci mandavamo continuamente a quel paese, legandoci a maglie sempre più strette. E tu vorresti imparare a camminare nella vita da uno che ha smesso da anni di farlo? – mi chiedeva. E giù altre ingiurie.

La nostra occupazione preferita era andare al fiume. L’Adda, il Serio, il Mincio. A fare niente, tutto. Contemplare i passanti e inventare per ognuno stravaganti biografie, ascoltare il verso delle (poche) rane sopravvissute ai pesticidi, attendere che i pensieri affiorassero dall’acqua e acquisissero un peso, dei confini, una forma. Per un pomeriggio ce ne stavamo lì, a sciupare allegramente le ore, come alberi cresciuti sulle rive.

Pietro stava spesso in silenzio, e chissà quali pensieri vaghi e pericolosi gli correvano nella testa. Quando si decideva a parlare, sentivo la lama dei coltelli fendere l’aria. Lo capisci che noi disabili siamo vite di scarto? Che siamo accidenti, spiacevoli imprevisti, storture, avanzi? Che non c’è un foglio bianco tutto per noi per poterlo riempire, ma solo ritagli? La mia vita è tempo gettato nel tempo, un grumo di sabbia scagliato nella corrente, che si sgretola e consuma senza lasciar traccia.

Il giorno del suo compleanno Pietro mi disse che il suo più grande rimorso era legato a ciò che il suo corpo pesante non gli aveva consentito di vivere; non gli mancavano le esperienze in sé, ma la possibilità di costruirsi dei ricordi a cui tornare quando voleva.

Tu puoi avere nostalgia per i tempi andati, le corse in bici, le nuotate, gli amori, io niente invece, bella fregatura, stronzo che sei, dammene un po’, no? – eccolo, l’amico amorevole.

Mi sono spesso interrogato sul nostro rapporto, sul poco che mi sembrava di offrire, sul tanto che sentivo di prendere. Eppure l’amicizia non si spezzava, e il quarantenne ormai ero diventato io.

Un giorno mi disse – Sai cosa sogno? Che una sera, invece che riportarmi qui, tu mi dica – buonanotte, io salgo di sopra – e ci sia soltanto una scala a separarci.

Cominciammo così a fantasticare di un luogo, un agglomerato di case, abitate da persone molto diverse tra loro, che però vivono insieme, e lo fanno perché vogliono conoscersi tutte, salvaguardando il loro tempo, stanche di frammentarsi negli scambi intermittenti, frettolosi e superficiali del quotidiano. Uno spazio abitativo per coppie, disabili, bambini senza famiglia, persone fragili che camminano a un passo diverso dalla moltitudine.

Quando, in seguito, cominciai a dirgli che l’idea del Villaggio stava prendendo forma ma che i tempi progettuali erano lunghi, si infiammava. Dovete fare qualcosa! Non vi accorgete che invecchiate e tutto resta uguale? Sembra che stiate per prendere il volo, ma poi non fate quasi niente. Quando vi fanno domande, agitate le mani nell’aria, ma non sento la vostra voce.

Nei nostri ultimi incontri Pietro mi guardava e sembrava pensare a tutt’altro, a cose che non stavano lì e che gli coprivano il viso di una polvere di malinconia. Si lamentava, diceva di essere un peso per i suoi familiari – sono carta vetrata sui loro nervi, sono una spina nella gola del mondo, non servo a nulla. Alla fine, non parlava più; quando mi fissava, mi sembrava mi svuotasse tutto con il suo sguardo assente, affollato di così tante domande da non riuscire più ad esprimerle.

Oggi, Pietro, il Villaggio diventa realtà. Ci sono gli operai al lavoro, i muri che salgono, il vento che spazza i cortili, il sole che inonda le prime pareti colorate, ci sono le finestre delle case che guardano la campagna. Ci sono le famiglie che attendono impazienti di traslocare. Scegliendo di vivere insieme, affermiamo con determinazione il nostro desiderio di condividere e mescolare le nostre biografie, per vivere un tempo pieno e di scambio.

Questo villaggio è solo un altro nome per l’impulso creativo che anima la nostra voglia di comunità, perché i rifiuti umani e le vite di scarto per noi non esistono, nessuno può essere lasciato indietro perché chi non cammina – me lo hai insegnato tu – a volte è chi sa camminare meglio di altri e chi spinge la carrozzella è spesso chi ha il passo più incerto.

Vivere insieme” è ciò che ci mancava per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi. Lo dicevi tu, Pietro, siamo solo persone che hanno fame, e che vogliono sempre stare addosso al vento. Quel vento oggi ci conduce qui. Il Villaggio sarà la nostra casa. Grazie per averlo pensato con noi.

PS: Sai che c’è una finestra nel Villaggio che dà su un piccolo torrente? Per me sarà la più bella di tutte.

Il Presidente del Consorzio Fa
Francesco Fossati